Riflessioni sul fine pena MAI
Dott.ssa Olivia Ninotti
Amiamo pensare di poter prendere decisioni sulla nostra vita per due motivi sostanziali: al concepimento e alla nascita non ci siamo riusciti e per la morte non c’è diritto di scelta. Adesso le nostre libertà sono limitate.
E’ un po’ come essere al mare d’estate e fuori diluvia.
Non puoi andare in spiaggia, tutto è scuro, gli ombrelloni sono chiusi e magari hai affittato una casa che è 50mq per tre persone ma siete in cinque.
Hai pure pagato per quella settimana e non puoi uscire.
Ma vedrai gente che esce lo stesso. E’ matematico. Alcuni pure osano sfidare il meteo infame con la bicicletta.
Poi ci sono gli anziani .
Non li ferma manco la grandine…Una sottocategoria di loro più invecchia più assume le caratteristiche metalliche di IronMan :sotto la grandine fanno il rumore delle pentole in acciaio inox picchiettate da una gragnola di sassi.
Ma a meno che tu non abbia scelto di andare in vacanza nel periodo dei monsoni, il brutto tempo passa.
Nell’era COVID19 la sensazione invece è il fine pena mai. Questo è il vero problema.
Conseguenze.
a) Il mondo si sta dividendo in tre: agli estremi dello spettro i rispettosi delle regole fino al talebanismo e gli indifferenti. In mezzo, i fatalisti. All’origine c’è la stessa schizofrenia empatica per cui si proteggono alcuni animali e se ne mangiano altri. I bambini ad un certo punto hanno l’illuminazione che la coscia di pollo del banco frigo non nasce a terra come le zucchine ma poi insegniamo loro la disconnessione emotiva per cui ci sono le galline e le coscie di pollo. Li rendiamo fisiologicamente psicotici per la categoria cibo carnivoro.
b) Quella dell’uomo è una specie aggressiva di base come quella degli scimpanzè. In libertà, le Rhesus –maschio o femmina-puniscono ogni componente che non si conforma alle regole del gruppo. In cattività il comportamento di gruppo diventa feroce e disorganizzato: vigerà la legge del più forte e ogni outsider comportamentale verrà abbattuto. Noi esseri umani in circostanze critiche devolviamo. Alla fine dovremmo dircelo, tutte le scimmie antropomorfe discendono dai predatori bipedi come il Velociraptor o il Trodon.
c) Il senso di moralità è culturalmente radicato nel nostro sviluppo evolutivo perché da questo dipende la sopravvivenza del gruppo sociale. La differenza coi mammiferi infatti è che l’uomo non fa solo gruppi famigliari . L’uomo si organizza in società ovvero più clan uniti senza consanguineità. Da qui deriva l’idea che dobbiamo essere responsabili delle nostre azioni. ’Sta minchia e vediamo perché ancora a punti, ma usiamo i numeri.
1. Nell’infanzia e nell’adolescenza la Corteccia prefrontale (CPF), che frena l’impulsività e orienta in gran parte il comportamento morale, è ancora immatura. La quarantena dimostra che i nostri figli reclusi per un periodo non definito si trasformano in scimmie Rhesus in cattività.
2. Ma pure gli adulti non scherzano. La cattività da sensazione di quarantena infinita produce effetti collaterali neurobioendocrinologi non da poco. Figuriamoci se poi c’è già una fragilità neuropsichiatrica di base. La diminuzione della serotonina produce l’aumento dell’aggressività, dell’impulsività e dei comportamenti antisociali. Diminuisce l’ossitocina, brutta roba:non solo non comunica più al cervello che si è mangiato a sufficienza e quindi ci ingozziamo, ma soprattutto l’amigdala-centro della paura e dell’aggressività-spara a caso. Il nemico è tutto ciò che è fuori, virus o persona che sia. C’è il collasso della compassione intesa nel senso etimologico del termine.
3. Agli anziani la CPF funziona meno o male e infatti se sono in grado di muoversi autonomamente, sono quelli che escono di più. Il loro lobo limbico li induce a fare quello che li fa stare meglio: wandering (con o senza cane) e spesa ( 3 -6 volte al giorno che comunque ha come nucleo sostanziale il wandering ma finalizzato).
4. I runner ondeggiano tra la ricerca della gratificazione e la crisi di astinenza di sostanze psicotrope endogene. Ma non sono cattivi. Come i vecchi fanno quello che li fa stare meglio.
Ed è questo il punto. Che tutti usciremmo se potessimo. Perché uscire non è solo una libertà. Uscire fa bene. Non farlo predispone alla depressione, nel migliore dei casi.
Le endorfine, la prolattina, la neurotrofina BDFN, la dopamina e la serotonina combattono lo stress e si innalzano con lo sport e la luce. I vecchi,i bambini e i runner lo sanno in modo più o meno consapevole.
Ma le sostanze sovracitate fanno anche altre due cose.
Migliorano le abilità di analisi e di riflessione del mondo circostante potenziando o creando le connessioni nella famosa CPF.
E se la CPF è potenziata, il controllo sulle reazioni emotive è più adeguato.
In una situazione in cui l’incertezza della durata di una quarantena rischia di diventare un elemento traumatico per la popolazione, il succo è cercare allora di trovare un compromesso tra le restrizioni necessarie per l’abbattimento del contagio e la sopravvivenza dei nostri cervelli perché non si adattino ma imparino.
E per imparare i circuiti cerebrali devono essere nelle condizioni neurotrofiche adeguate.
Anche luce e movimento allora.
Gli effetti cognitivi, relazionali e sociali di un’emergenza purtroppo si possono vedere solo a lungo e medio termine e non possono essere scotomizzati da quelli epidemiologici di contenimento di una pandemia.
La visione dev’essere globale.
Come diceva J.Z.Young: “Un buon ambiente non è un lusso, ma una necessità”.
Altrimenti faremo le Rhesus in cattività, aggiungo io.